Abracadabra... e la pace nel mondo
Il (nuovo) antisemitismo parla la lingua del mondo accademico
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Poche ore fa, un turista francese di fede ebraica è stato vittima di un'aggressione fisica e picchiato di fronte al figlio. L'episodio (che forse sarebbe più corretto definire: il tentativo di linciaggio) si è verificato in un'area di servizio dell'autostrada Milano-Laghi, mentre erano in attesa di utilizzare la toilette. L'aggressione, motivata dal fatto che l'uomo indossava la kippah, è stata perpetrata da diversi individui presenti in coda. I responsabili hanno gridato frasi come: “Assassini”, “All'inferno”, “Palestina libera”, “Qui non è Gaza, qui siamo in Italia” e “Andrete all’inferno, prima o poi”.
Nei giorni scorsi, sulla porta d'ingresso del bar-biglietteria del terminal degli autobus di Termoli (Campobasso), è stato affisso un avviso recante la dicitura "In questo locale è vietato l’ingresso agli israeliani".

Questi due episodi non sono isolati, ma sono un’ottima rappresentazione del crescente sentimento antisemita che va montando in Italia come un’onda d’odio.
Le considerazioni che seguono non entrano nel merito della questione israelo-palestinese, ma cercano di analizzare come un determinato utilizzo del linguaggio, ampiamente promosso dal mondo accademico, possa influenzare l'opinione pubblica.
Se appartenete a coloro che gridano “Palestina libera”, la lettura di questo post potrebbe non essere consigliabile.
Abracadabra... e la pace nel mondo!
Mi è capitato sott’occhio un post Instagram dove Paolo Borzacchiello1 riflette su certe questioni che riguardano la formula magica che fa alzare il naso per aria ai bambini: abracadabra! È un incipit perfetto anche in questo caso e non esiterò ad appropriarmene.
La parola, fin dall'alba dei tempi, è investita di un potere magico. L'antica formula aramaica “abracadabra” può essere tradotta in “creerò mentre parlo” (avra ke-dabrá) o “le mie parole hanno il potere di creare la realtà”.
Questo concetto trova una profonda risonanza nella filosofia del linguaggio, dove la teoria degli atti linguistici performativi insegna che dire qualcosa non è solo descrivere una realtà, ma anche compierla. Dio creò il Mondo nominando le cose e proclamare “vi dichiaro marito e moglie” non è una mera formula d’ufficio, ma l’atto simbolico che istituisce una nuova condizione.
Le parole, non sono innocue; possono modellare percezioni, creare divisioni, o peggio, fomentare l'odio, specialmente in contesti dove la posta in gioco sono la verità e l'equilibrio.
Il rigurgito antisemita nelle università italiane, tra aggressioni e sottili ipocrisie
In un momento di profonda polarizzazione come quello che stiamo vivendo, le università, che per loro natura dovrebbero essere baluardi del pensiero critico, della ragione e del dialogo, in Italia stanno mostrando segni preoccupanti di un rigurgito antisemita.
Questo fenomeno si manifesta sia attraverso episodi plateali di aggressione e discriminazione, sia tramite un'ipocrisia più sottile, veicolata attraverso il linguaggio di manifesti e dichiarazioni presentate come (discutibili) appelli alla pace.
Un esempio eclatante di questa tensione si è verificato all'Università di Torino2 lo scorso aprile, quando lezioni sulla storia di Israele sono state interrotte da attivisti pro-Palestina che hanno cercato di impedire lo svolgimento regolare dell'attività didattica, arrivando a intimidire docenti e studenti. Anche questo non è un caso isolato. All'Università di Bologna3, docenti ebrei e studiosi del Medio Oriente hanno denunciato un clima di ostilità crescente, con episodi di graffiti antisemiti e minacce sui social media, spesso legati a un'interpretazione unilaterale e radicale del conflitto israelo-palestinese. E alla Sapienza di Roma4, si sono registrate tensioni con manifestazioni non autorizzate che hanno tentato di bloccare gli accessi alle lezioni, per boicottare collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane.
Inviti a boicottaggi simili si ripetono ormai quotidianamente in tutti gli Atenei, spesso riscuotendo ampio consenso più o meno tacito da parte del corpus docente e, da professore, mi chiedo che senso possa mai avere interrompere i rapporti di ricerca scientifica, artistica e umanistica con altre istituzioni accademiche. Se mai un giorno sarà possibile costruire un vero dialogo tra le due rive di questo fiume di sangue, è da lì che dovremmo partire.
Questi episodi, spesso relegati ai margini del dibattito pubblico e minimizzati dai media, rappresentano una violazione inaccettabile dei principi di libertà accademica e di tolleranza che dovrebbero caratterizzare ogni ambiente universitario.
Questo clima, attraverso la veicolazione di determinate narrazioni e la demonizzazione acritica di una sola delle due parti in causa, concorre a generare un ambiente ostile e intollerante.
I frutti coltivati con solerzia da questi pessimi maestri si colgono poi negli autogrill della Milano-Laghi o nei bar di Termoli. E non solo.
Il comunicato delle Conferenza dei Direttori delle Accademie di Belle Arti
Per non portar scompiglio in orti altrui, guardo nel mio: un esempio lampante di questa deriva è il comunicato sulla situazione a Gaza rilasciato dalla Conferenza Nazionale dei Direttori delle Accademie di Belle Arti il 3 giugno 20255.
Il documento, pur celandosi dietro un nobile ideale di pace, rivela una profonda parzialità e un uso discutibile della terminologia, trasformando un'opportunità di riflessione in un'espressione di attivismo politico.
Innanzitutto, si tratta di ciò che si definisce un atto ultra vires, ovvero un'azione che eccede palesemente le competenze e le finalità attribuite alla Conferenza stessa che ha solo funzioni di “coordinamento operativo” e “consultazione su problematiche gestionali”. Esprimere posizioni nette su conflitti internazionali, utilizzando termini di natura politica e giuridica come genocidio e strategia di annientamento dell'altro, non rientra minimamente nel suo mandato6.
Ma quel che trovo più preoccupante è l'analisi semantica e lessicale del testo. Il linguaggio è emotivo e perentorio. La sofferenza dei territori palestinesi non è in discussione e se vi sono stati compiuti crimini di guerra, chi ne ha mandato ne risponderà, così come una corte internazionale sta indagando se effettivamente certe azioni di Israele possano essere ricondotte al genocidio o meno. E qui vale ricordare che “genocidio” non è una parola qualsiasi, ma ha una precisa qualificazione giuridica.
Questo genere di “imprecisioni” (a pensar male si fa peccato…) possono essere comprensibili nei testi di haters da social o giornalisti rubati alla zappa, ma non nei comunicati ufficiali di una istituzione accademica.
In questo caso, la scelta denota una grave mancanza di rigore intellettuale, volta a trasformare un'opinione politica in un'affermazione fattuale di estrema gravità e non comprovata, posizionando il comunicato nel campo dell'attivismo e non in quello del pensiero accademico.
A questo devo aggiungere che tutto il comunicato non può non ricordare la conclusione di certe interviste alle reginette di bellezza di turno che si concludono inevitabilmente con un sorriso a trentadue denti e l’immortale frase “... e la pace nel mondo!”.
La banalità di un simile messaggio non risiede tanto nella richiesta di pace – tutti aspiriamo alla pace – quanto in questa estrema e fuorviante semplificazione di una realtà tragicamente complessa. Le tragedie di Gaza, con il loro inaccettabile bilancio di vittime civili e la devastazione che ne è scaturita, sono ferite aperte che meritano ogni condanna. È possibile, anzi probabile, che siano state commesse violazioni del diritto internazionale umanitario da entrambe le parti in conflitto. Ma questo non autorizza l'uso improprio e decontestualizzato di termini che hanno un peso specifico e un significato giuridico ben preciso.
I comunicati generici, spesso alimentati da sottili ipocrisie e da un chiaro attivismo ideologico, non offrono mai soluzioni concrete. Mai una volta che fosse una che spieghino come farla, questa pace! Al contrario contribuiscono solo all'estremizzazione delle posizioni, rendendo ancora più difficile la ricerca di quella moderazione necessaria a dirimere complessità antiche che veri appelli alla pace, basati sulla conoscenza e il rigore, dovrebbero invece perseguire.
Rinunciando alla capacità di riconoscere le molteplici prospettive di un conflitto, le istituzioni accademiche e culturali stanno scegliendo di trasformarsi in megafoni di propaganda, tradendo il loro mandato fondamentale di promuovere il pensiero critico e la comprensione profonda.
E alle persone di buona volontà non resta altro da fare che cercare di non perdere la forza necessaria per continuare a dirlo.
Vedi Osservatorio Antisemitismo | Bologna, università, aggressioni e minacce da parte degli studenti pro pal
Vedi, a titolo d’esempio, Accademia di Belle Arti di Sassari | Dichiarazione sul conflitto a Gaza | Il comunicato è stato riportato anche da altre Accademie di Belle Arti
Vedi Ministero dell’Università e della Ricerca | Conferenze Istituzioni AFAM